Storia della matematica

L’origine della matematica è molto remota. Ma per tutto il tempo prima dell’invenzione della scrittura, sembra difficile affermare qualcosa di diverso dalle generalità, solo indirettamente supportate da alcune prove archeologiche (successioni di tacche o segni che possono suggerire il conteggio, ecc.) o dalle analogie che si possono trarre dagli studi etnologici: la gente sapeva contare; qui, diversi sistemi di numerazione possono essere stati utilizzati (numerazione decimale, conteggio in forma di numero). Sapevano contare; qui possono aver usato diversi sistemi di numerazione (decimale, duodecimale, sessagesimale, ecc.), là possono essersi limitati all’uso di soli quattro numeri (uno, due, tre, “molti”); devono anche aver conosciuto alcuni dei principi di rilevamento dei campi coltivati, imposti dallo sviluppo dell’agricoltura. In ogni caso, è sorprendente notare che l’invenzione della scrittura è ovunque strettamente legata a preoccupazioni matematiche, o almeno contabili. I numeri sono stati registrati per la prima volta, ma molto rapidamente si è arrivati a interrogarsi sulle relazioni tra di loro. Posti e risolti in modo molto rudimentale in Mesopotamia e in Egitto, questi problemi disegnano già i contorni di un’aritmetica, un’algebra, una geometria.

Mesopotamia.
In tutti i campi, la conoscenza dei Babilonesi era espressa principalmente sotto forma di liste. Conosciamo tavolette d’argilla su cui appaiono, dall’epoca sumera (III millennio a.C.), liste di quadrati o cubi di numeri messi in corrispondenza, e in cui possiamo vedere una forma arcaica dell’attuale concetto di funzione. Queste tabelle venivano utilizzate per calcolare superfici e volumi, ma anche per risolvere equazioni di 1° e 2° grado. I matematici mesopotamici diedero a (Pi) il valore approssimativo 3. La relazione, nota come Pitagora, tra il quadrato dell’ipotenusa e la somma dei quadrati dei lati di un triangolo rettangolo era a loro nota, anche se non erano in grado di dimostrarla.

Egitto.
I metodi di calcolo degli antichi Egizi erano meno avanzati di quelli dei Babilonesi, le loro formule metriche erano spesso solo approssimate; essi lasciarono tuttavia in eredità ai Greci dei metodi la cui tradizione si conservò fino alla caduta dell’Impero bizantino, in particolare l’uso, esclusivo tra loro, di frazioni aventi per numeratore l’unità, tranne quella di 2/3.

Matematica antica
Per quanto riguarda la tradizione matematica occidentale, dobbiamo cercare la sua origine nell’antica Grecia, dove la disciplina si costituisce pienamente come scienza astratta.

Grecia.
La parola matematica deriva dal greco mathema, che ha il significato generale di una scienza che può essere insegnata; il significato tecnico risale alla scuola pitagorica, dove si distinguono quattro matematiche.

“Ci sono quattro gradi di saggezza, aritmetica, musica, geometria, sferica, classificati 1, 2, 3, 4. ” (Pseudo-Pythagoras, De Dits.)

Da questo momento (V secolo a.C.) si determina così il carattere speciale di queste scienze, che vengono classificate secondo lo sviluppo che i loro vari rami ricevettero allora.

Presso i greci, le scienze matematiche si svilupparono rapidamente e presero una forma classica ben nota, quella di un insieme di proposizioni isolate, ma rigorosamente dimostrate una per una a partire da un piccolo numero di definizioni o assiomi.

Il risveglio della matematica greca.
Talete (nato nel 600 a.C.) è il primo nome conosciuto che considerò i concetti geometrici in modo astratto. Gli si attribuisce la teoria dei triangoli simili, così come la proposizione, che non ha dimostrato (e che è impropriamente chiamata teorema di Talete) che due linee parallele determinano segmenti proporzionali sulle secanti.

Pitagora, o almeno le prime persone che lo affermarono, fece dei numeri il principio di tutto. Uno dei primi pitagorici (forse Ippaso di Metaponto), stabilì la proposizione del quadrato dell’ipotenusa e la sua scuola riuscì a trarne alcune conseguenze: fu così dimostrata l’irrazionalità della radice quadrata di 2 e, più in generale, fu considerata la questione delle quantità reciprocamente incommensurabili. Tra i primi pitagorici troviamo anche Archytas di Taranto, e al suo tempo risale la scoperta della proprietà del cerchio o della sfera di essere massimo tra figure dello stesso perimetro o area. Per i pitagorici, la musica è un’applicazione dell’aritmetica all’acustica, e si deduce dalle leggi fondamentali attribuite al maestro (teoria dei rapporti e delle progressioni). La tradizione pitagorica continuò per molto tempo. Nel periodo alessandrino, possiamo ancora citare Nicomaco di Geraso.

Anassagora di CIazomene (intorno al 460) scrisse un trattato sulla quadratura del cerchio. Ma il vero sviluppo della geometria risale a Platone (intorno al 400), la cui opera matematica si ispira ancora a Pitagora. Platone ha introdotto il metodo analitico, la teoria delle sezioni coniche e la dottrina dei luoghi geometrici. Egli pone la questione dell’iscrizione in una sfera dei cinque poliedri regolari (i cinque corpi platonici o i cinque corpi euclidei, come diremo più avanti) in una sfera. Dà anche una soluzione semplice ed elegante data la duplicazione del cubo. Questa questione, che gli antichi chiamano il problema di Delo, aveva già occupato l’intelligenza di Ippocrate di Chio e di Archytas.

Aristotele, discepolo di Platone, affrontò le questioni dell’infinito e del continuo. La sua logica era l’unica conosciuta dai matematici fino al XIX secolo. Eudosso sviluppò la teoria delle proporzioni, Menechme studiò le sezioni coniche. Seguirono suo fratello Dinostrato, Autolico di Pitania, ecc.

Matematica alessandrina.
Mettendo insieme le scoperte dei suoi predecessori e le sue, Euclide di Cnido stabilì il legame tra la scuola platonica e la scuola matematica di Alessandria. Raccolse le proposizioni che erano state scoperte dai suoi predecessori e compose la sua famosa opera degli Elementi. L’opera, in cui il metodo di riduzione all’assurdo appare per la prima volta, consiste in quindici libri, di cui i primi tredici sono stati scritti da Euclide stesso, e gli ultimi due sembrano essere stati aggiunti da Ipsicle di Alessandria. Così come con i Pitagorici l’aritmetica era stata applicata all’acustica, da Euclide in poi, che era anche un aritmetico (teoria dei numeri irrazionali), la geometria fu applicata all’ottica (prospettiva e catottrica).

Dopo Euclide, brillarono Archimede, Apollonio, Eratostene, Nicomede e pochi altri, che riuscirono a costituire ciò che oggi chiamiamo matematica elementare.

Trovando il rapporto tra la circonferenza e il diametro, Archimede diede i primi esempi di un problema risolto per approssimazione. Gli dobbiamo anche un trattato sulle spirali, la proporzione della sfera e del cilindro circoscritto, la cubatura di sferoidi e conoidi e la scoperta della quadratura rigorosa. Il percorso seguito da Archimede costituisce il metodo dell’esaurimento (già abbozzato da Euclide), dove il metodo dei limiti e il calcolo differenziale sono in germe.

Gli scritti di Apollonio di Perge (circa 250 a.C.) riguardano principalmente la geometria della forma. Il principale sembra essere il Grande trattato sulle coniche. Si dice che fu il primo ad applicare a queste curve i nomi di parabola, ellisse e iperbole, con i quali da allora sono sempre state indicate. Gli si attribuisce anche la teoria degli epicicli.

Tra i matematici illustri, successori di Apollonio e Archimede, citeremo: Aristarco di Samo; Ipparco, l’inventore della trigonometria rettilinea e sferica; Menelao, autore di un Trattato delle Sferiche, in cui troviamo la proprietà delle trasversali nei triangoli rettilinei o sferici; Tolomeo (ca. 85 – ca. 165 d.C. C) che, nel suo Almageste, ha lasciato un trattato di trigonometria rettilinea e sferica ed è anche autore di un’Ottica e di un Trattato sulle tre dimensioni dei corpi; Erone di Alessandria; Pappo, che, nelle sue Collezioni matematiche, dà una definizione precisa di analisi e sintesi; dà anche la proprietà fondamentale del rapporto anarmonico e il germe dell’involuzione. Dopo Pappo, la scuola alessandrina, nel suo declino, comprende ancora Screnus, Diocle, l’inventore del cissoide, Proclo e diversi altri commentatori: Teone e sua figlia Ipazia; Simplicio, Eutocio di Ascalona.

Una volta sottomesso ai romani, per i quali la scienza pura non aveva alcuna attrattiva, il mondo ellenico conservò la maggior parte del tesoro di conoscenze che era stato accumulato, ma senza accrescerlo. Solo Diofanto (III sec. ?.), al quale si fa generalmente risalire l’origine dell’algebra, si distingue in questo periodo. L’opera di Diofanto si occupa solo di una particolare classe di questioni aritmetiche, per la cui soluzione mostra una notevole abilità, e si trova infatti a metà strada tra l’aritmetica e l’algebra. Il matematico rappresenta l’incognita di un problema con l’abbreviazione os, finale della parola greca rithmos (numero); non usa né le lettere dell’alfabeto, né i segni delle funzioni, tranne però il segno della sottrazione, che è uno Psi invertito e un po’ troncato ().

Roma.
Per quanto riguarda i romani, come abbiamo detto, non si sono fermati alle speculazioni disinteressate della matematica. Notiamo semplicemente che Plinio e Varrone mostrano di saper contare sulle dita trattando la numerazione dattilica, e aggiungiamo che i romani adottarono anche un sistema di numerazione in cui i segni venivano ripetuti un numero di volte uguale a quello che esprimeva il loro valore assoluto. Forse seguendo il sistema degli Etruschi, che annotavano i tempi con i chiodi, usavano le lettere I, V, X; L, C, D, M, per indicare 1, 5, 10, 50, 100, 500, 1000, combinandole variamente per i numeri intermedi e per i multipli.

La matematica nel Medioevo

Il ruolo svolto nella storia della matematica dai medievisti, arabi o latini che siano, è principalmente quello di relè. Hanno raccolto e trasmesso le conoscenze acquisite in India, in Grecia o a Bisanzio (dove i libri antichi non erano più studiati come curiosità senza molta applicazione a parte l’astrologia). Questo permetterà alla matematica, dal Rinascimento, di trovare il suo filo conduttore. I progressi sono stati fatti durante questo lungo periodo, ma bisogna dire che sono stati minori: spesso abbiamo a che fare meno con nuovi risultati che con la rielaborazione di vecchi concetti.

La tradizione matematica orientale.
Gli arabi presero in prestito l’algebra e le cifre numeriche dall’India. Ed è stato probabilmente dall’Estremo Oriente che hanno preso in prestito i semi della conoscenza dimostrata dai loro matematici. In effetti, la matematica di Cina e India ha già una lunga storia.

Cina.
L’Yijing (Yi-king o Y-king), un’antica opera cinese di filosofia, contiene solo nozioni matematiche piuttosto sommarie: la nozione di permutazione (analisi combinatoria) è manipolata con i trigrammi, ma senza teorizzarla esplicitamente; si trova anche una forma di numerazione binaria (basata su yin e yang), ma è anche molto implicita.

Lo Zhoubi Suanjing (Chou Peï Suan king), anch’esso di grande antichità (come il precedente, è difficile da datare, ma fu probabilmente composto nel corso del primo millennio a.C.), è più specificamente dedicato all’aritmetica e ai calcoli astronomici. Descrive le proprietà dei triangoli rettangoli (con una dimostrazione grafica del teorema di Pitagora) e vengono utilizzate le frazioni.

Il Suàn shù shu (Scritti sul calcolo) e il Jiuzhâng Suànshù (Le nove sezioni – o nove capitoli – sui procedimenti matematici) sono opere più recenti (l’ultimo fu completato verso l’inizio della nostra era). Il primo contiene un metodo per calcolare le radici quadrate. Per quanto riguarda il secondo, tratta in modo più sistematico (e pedagogico) tutti i campi in cui interviene la matematica. In particolare, si occupa della soluzione di sistemi di equazioni lineari, o della soluzione di equazioni di secondo grado.

Dal III secolo in poi, diversi nomi di matematici ci sono noti. Possiamo citare : Liu Hui (Liou Houi), commentatore delle Nove Sezioni, e che, verso il 263, dedusse dallo studio di un poligono di 172 lati un’approssimazione pari a 3. 14159; Zu Chongzhi (Tsu Ch’ung-Chih, 430-501), che arriva per la sua parte al quadro 3.1415926 <3.1415927; e soprattutto Zhu Shijie (Chou Chi-kié, 1280-1303), autore del Prezioso specchio dei quattro elementi. Quest’opera contiene un triangolo aritmetico (o “triangolo di Pascal”), già noto da più di un secolo, ma dove questa volta i coefficienti del binomio sono disposti alla potenza di 8. Viene anche presentato un metodo per risolvere le equazioni (fino al 14° grado). È equivalente, ma cinque secoli prima, a quello proposto da Horner.

Gli antichissimi contatti dei cinesi con i greci, e quelli più stretti e continui con gli indiani, ci permettono di pensare che l’influenza della matematica cinese sui greci possa essere esistita, e che possa aver giocato un ruolo notevole nell’evoluzione della matematica indiana. In ogni caso, dal XV secolo in poi, le influenze esterne, a partire dall’Occidente, giocarono un ruolo massiccio in direzione opposta, e la matematica cinese finì per perdere il proprio carattere.

India.
Quando gli arabi conobbero la matematica orientale, gli indiani, con affermazioni di teoremi sulle superfici o sui volumi di figure semplici, erano già in possesso di una geometria originale e, soprattutto, si distinguevano anche nelle loro ricerche sulle proprietà dei numeri e sulle trasformazioni algebriche.

Già nel IV secolo a.C., Apâsthamba compose il Sulvasûtra, un trattato destinato a raccogliere le conoscenze necessarie alla costruzione dei templi, e nel quale troviamo in particolare una formulazione del teorema di Pitagora. Nel V secolo d.C., Aryabhatta fu l’autore di un’opera (l’Aryabhâtiyam), in cui appaiono per la prima volta i rapporti che saranno poi chiamati sine (i greci usavano solo la nozione di accordi). C’è anche una tavola dei seni espressa in versi, e quindi presumibilmente facile da memorizzare… Infine, Brahmagupta, verso la metà del settimo secolo, fu l’autore di un trattato che sarà presto di grande importanza per gli arabi, il Siddhânta.

Più tardi, Bascora Acharay (o Bhâskara), nato nel 1114, scrisse il Lilâvati (dal nome di sua figlia), in cui le prime quattro operazioni in numeri interi e frazioni sono comunemente eseguite, la regola del tre, l’estrazione di radici quadrate e cubiche, come facciamo oggi

Gli arabi.
Gli arabi, e i popoli uniti per un periodo o in modo permanente al loro impero, conobbero il Siddhânta (che chiamarono il Sindhind) alla fine dell’VIII secolo dalle traduzioni fatte da Ibn Tariq e Al-Fazari. Chiamano la geometria handasa (o kendes-séh, secondo le trascrizioni), cioè arte indiana; prendono in prestito dagli indiani la loro numerazione scritta, che non ha più bisogno di essere perfezionata, e nella trigonometria l’uso del seno (invece della corda) e forse della tangente.

A partire dal regno di Al-Mammun (813-834), grazie al lavoro del suo bibliotecario, Abu-‘Abdallah el-Khârizmî, l’eredità matematica dei greci cominciò ad essere veramente conosciuta e arricchita dalle conoscenze acquisite dai matematici indiani. Studiò il Siddhanta sanscrito, revisionò le tavole di Tolomeo e scrisse dei trattati sull’algebra che il Medioevo tradurrà in latino.

È a el-Khârizmî (dal cui nome deriva la parola algoritmo) che si può far risalire il termine algebra, la cui fortuna è stata singolare, e che inizialmente aveva solo un significato ristretto; il nome completo da cui deriva questa parola (al-djebr wa’l moukâbala, restituzione e opposizione) designa originariamente in al-Khwârizmi due operazioni chiaramente descritte in Diophantus come le prime ad essere effettuate sulle equazioni. Una (restituzione) consiste nel passare quantità negative da un membro all’altro, in modo che rimangano solo termini positivi da entrambe le parti; l’altra (opposizione) consiste nel ridurre termini simili da entrambe le parti.

La composizione matematica di Tolomeo (l’Almagesto) fu tradotta da El-Ferghâni (Alfraganus) nel primo terzo del nono secolo; egli costruì anche un nuovo nilometro in Egitto e compose un manuale di astronomia; anche Abu-Ma’char (Albumaser) di Balkh, l’antica Bactria.

Al-Hajjaj tradusse gli Elementi di Euclide nello stesso periodo, e presto Thâbit ben Qorra (836-901), un cambiavalute di Harran (l’antica Carrhae, famosa per la sconfitta di Crasso), che venne alla corte dei califfi, tradusse il libro delle sezioni coniche di Apollonio di Pergé, e scrisse libri di testo a scopo didattico.

Le traduzioni continuarono nel X secolo, ma cominciarono ad apparire le prime opere originali: El-Battânî (Albategnius) redasse a Raqqa, sull’Eufrate, delle tavole astronomiche ancora molto apprezzate da Lalande; impose anche l’uso dei seni in trigonometria (inaugurato, come abbiamo visto, in India) al posto degli accordi, e produsse anche alcuni risultati notevoli in trigonometria sferica.

Ibn al-Haitham (Alhazen), morto nel 1038 al Cairo, risolse problemi irrisolvibili prima di lui trisecando l’angolo e ricercando le due medie proporzionali per la duplicazione del cubo.

Toûsî, nato nel 1201 a Toûs (Mèchehed, Khorasan persiano), astrologo di Houlagou, salva un gran numero di manoscritti durante la presa di Baghdad. Fece della trigonometria una scienza separata e tradusse Euclide.

Il poeta persiano ‘Omar Khayyam contribuì alla riforma del calendario ordinata dal sultano selgiuchide Malak-Shah, soprannominato Djelâl-ed-dîn, da cui il nome dell’era Djelalean; compose un trattato di algebra.

Avicenna ci ha lasciato un libro sul calcolo, in cui tratta le operazioni matematiche e il modo di dimostrarle, specialmente quella chiamata prova del nove.

I latini.
Nell’Occidente latino, all’incrocio tra Antichità e Medioevo, possiamo, al massimo, menzionare Boezio (ca. 480-524), autore di un’Aritmetica, che è solo una copia, peraltro mal digerita, di Nicomaco di Geraso. E c’è anche sotto il suo nome (ma l’attribuzione è contestata) un Ars Geometriae, contenente tra l’altro una traduzione letterale dei primi quattro libri di Euclide, ma in cui le dimostrazioni sono state omesse. Circa un secolo dopo, Isidoro, il vescovo visigoto di Siviglia, nelle sue Etimologie, spiega che “la geometria ha il carattere della moltiplicazione”, che la distingue dall’aritmetica “il cui fondamento è l’addizione”. Questo dimostra quanto la matematica fosse caduta in basso in questo periodo.

Dopo un lungo periodo di oscurità, durante il quale il calcolo pasquale era il massimo della conoscenza desiderabile, l’insegnamento della matematica riapparve nel quadrivium delle arti liberali delle università, secondo la vecchia classificazione pitagorica. Ruggero Bacone dichiarò che la matematica è lo strumento più potente per penetrare le scienze, la scienza che precede tutte le altre e ci prepara a comprenderle. Ma pochissime persone la pensano ancora come lui. Hildebert di Mans, un poeta di grande fama in quel periodo, è più vicino allo stato d’animo del momento, componendo un poema in quindici canti, intitolato il Matematico, per ridicolizzare l’astronomia e gli astronomi.

Nel XII secolo, gli arabi, fondatori delle università di Granada e Cordoba, fecero conoscere gli Elementi di Euclide in Occidente. Hanno ricevuto dai cristiani di Siria i tesori della scienza greca e indiana: li hanno trasmessi all’Europa latina, grazie alle traduzioni effettuate in particolare in Spagna. Hermann il Dalmata fece conoscere il planisfero di Tolomeo (1183), Gerardo di Cremona tradusse l’Almagesto (1173). Da parte sua, Campano, che visse dopo il 1200, commentò Euclide e studiò la teoria dei pianeti e la quadratura del cerchio.

Ma è soprattutto dalle necessità pratiche del commercio che si sviluppa, soprattutto in Italia, che viene un nuovo impulso. A Leonardo da Pisa, noto come Fibonacci, si attribuisce il merito di aver, in un trattato di aritmetica (Liber abaci) pubblicato nel 1202, comprendendo l’algebra come era conosciuta, insegnato o meglio propagato l’uso dei numeri arabi, che lui chiama numeri indiani, e di cui indica il valore relativo o posizionale. (Gerberto, intorno all’anno 1000, e un po’ più tardi Adelardo di Bath, conoscevano già figure numeriche e aritmetica basate sul sistema arabo, ma la loro introduzione in Occidente ebbe un impatto molto limitato). Impiegato presso l’ufficio doganale di Bejaia (l’attuale Algeria), Fibonacci raccolse tutto ciò che si sapeva sull’aritmetica in Egitto, Grecia, Siria e Sicilia, e scrisse un trattato su di essa. Zero, secondo lui, deriva dalla parola araba Zephirum; ma il suo più grande merito è di essere stato il primo tra i latini a scrivere sull’algebra, e in modo tale che tre secoli di lavoro diligente non hanno aggiunto la minima cosa a ciò che aveva insegnato. Si applicò alla soluzione di problemi commerciali senza il minimo riferimento a operazioni magiche, e questo in un’epoca in cui queste provocavano il delirio nelle menti più illustri. Da questo periodo la scienza sembra essere stata studiata con una certa assiduità in Italia, dove possiamo menzionare, tra gli altri, Paolo dall’Abaco, un abile matematico, che rappresentò, per mezzo di macchine, tutti i movimenti delle stelle.

Il primo libro stampato su questo argomento fu composto dal frate minore Luca Paciuolo o Lucas de Borgo (1445-1526) e apparve nel 1470. Contiene un trattato sull’algebra che era abbastanza completo per il suo tempo, ma la scienza è ancora in gran parte allo stesso stato di Diofanto (che non sembra essere stato conosciuto dall’autore, in quanto ha attinto solo dagli arabi). La sua applicazione era limitata a questioni piuttosto poco importanti relative ai numeri, e poteva ancora risolvere solo equazioni di primo e secondo grado.

Il resto dell’Europa comincerà presto a interessarsi di nuovo alla matematica. Ma ci sono, nell’ultimo periodo del Medioevo, menti curiose piuttosto che dotte. Nicolas Oresme ha abbozzato la notazione degli esponenti. John Halifax, meglio conosciuto come Sacrobosco, diede, oltre al suo Algoritmo, un trattato sulla sfera. La trigonometria moderna fu fondata nel XV secolo da Regiomontanus.
I secoli XVI, XVII e XVIII
Il nuovo linguaggio matematico (XVI secolo).
Poi venne la rinascita della matematica, che seguì la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi (1453). Tuttavia, il lavoro principale del XVI secolo fu la creazione dell’algebra nella sua forma attuale. Questo ramo della matematica esisteva nella tradizione occidentale almeno da Diofanto, e si sa che i suoi fondamenti si trovavano già presso i Babilonesi, in Egitto, in India, ecc. Ma, essendo troppo legato ai numeri, attaccato a casi particolari, mancava ancora degli strumenti che gli avrebbero dato tutta la sua potenza. Ha acquisito i suoi strumenti per gradi. Luca Paciuolo iniziò così a dare dei metodi per ridurre tutte le equazioni di secondo grado a tre casi. Poi venne Niccolo Fontana, noto come Tartaglia, Cardan e Ferrari, che iniziò ad affrontare il problema generale della risoluzione delle equazioni di terzo e quarto grado. Dopo di loro, Viète fu il primo ad applicare l’algebra alla geometria, gettando così le basi dell’analisi moderna.

Algebra, una lingua in cerca di un vocabolario.
Dall’inizio del XVI secolo, l’algebra fu coltivata da un gran numero di matematici. Scipio Ferreo, professore di matematica a Bologna, intorno al 1505, fu il primo a rompere le barriere dove l’algebra era stata imprigionata fino ad allora e riuscì a risolvere un problema di 3° grado, ma non rese pubblica la sua scoperta.

Qualche tempo dopo, Tartaglia (1500-1557), che insegnava matematica a Venezia, venne a conoscenza di una sfida lanciata, secondo la moda del tempo, dal matematico Fiori (o Fior); quest’ultimo, che possedeva, diceva, un metodo per risolvere l’equazione di terzo grado (forse gli venne da Ferreo), impegnò una somma di denaro contro chiunque avrebbe risolto trenta quesiti che costituivano casi particolari di questa equazione. Tartaglia ha proposto un metodo più semplice e ha vinto facilmente risolvendo le domande proposte in meno di due ore.

Girolamo Cardano (nato a Pavia nel 1501, morto a Roma nel 1576) stava componendo il suo Ars marna, sive de regulis algebraicis liber unus (Norimberga, 1545), quando venne a conoscenza del risultato di questa gara scientifica. Strappò il suo segreto a Tartaglia, giurando sui Vangeli di non rivelarlo mai, ma questa solenne promessa non gli impedì di pubblicarlo nella sua Ars magna, pur rendendo giustizia, è vero, agli inventori precedenti. Inoltre, mentre Tartaglia sapeva risolvere l’equazione di terzo grado solo nel caso di una sola radice reale, Cardan, mente sottile e matematico brillante, notò che, quando la formula per risolvere l’equazione conteneva quantità immaginarie, l’equazione aveva tre radici reali: questo fu il primo esempio del legame tra quantità reali e immaginarie, che sarebbe stato pienamente sviluppato nel XIX secolo.

All’età di ventitré anni, Ferrari, allievo di Cardano, risolse l’equazione di quarto grado. Così fu acquisita la risoluzione algebrica delle equazioni dei primi quattro gradi, le uniche che possono, nel caso generale, essere risolte estraendo le radici, come dimostrerà il matematico Abel nel XIX secolo.

L’algebra è ancora, tuttavia, solo una collezione di ricette isolate, ognuna delle quali ha come obiettivo la soluzione di un problema particolare. In effetti, Tartaglia e Cardan non hanno dato formule per risolvere problemi nel senso che attribuiamo oggi a questa parola. Le regole di Tartaglia sono messe in tre strofe di nove versi, ognuna dedicata a descrivere la sequenza delle operazioni destinate a risolvere ciascuna delle forme di equazione che scriveremmo oggi:

x3 = px = q,
x3 + q = px,
x3 = px + q,

forme che Tartaglia doveva distinguere, perché conosceva solo i numeri positivi.

Tra gli uomini che, più o meno nello stesso periodo, contribuirono al miglioramento dell’algebra con l’introduzione di una notazione concisa e sistematica, dobbiamo menzionare Stifel (o Stifelius), e Robert Recorde. L’opera del primo, intitolata Arithmetica integra, fu pubblicata nel 1544. Stifel adottò definitivamente i segni + e – (più e meno) già introdotti da John Widmann di Eger, per rappresentare l’addizione e la sottrazione, così come il simbolo’ per significare radicale o radice. Ha anche introdotto gli esponenti numerici delle potenze – 3, – 2, – 1 , 0, + 1, + 2, +3, ecc. Recorde (1552) inventò il segno di uguaglianza (=); scelse questo simbolo perché, disse, non ci possono essere due cose più uguali di due linee parallele. Dopo di loro, Raphael Bombelli (1579) e Richard Steven (1585) meritano di essere menzionati.

Algebra secondo Viète.
Ma il vero fondatore dell’algebra, come la intendiamo oggi, fu François Viète. Nato a Fontenay nel Poitou nel 1540, e morto a Parigi nel 1603, Viète, consigliere al Parlamento di Bretagna, poi maestro di richieste a Parigi e consigliere privato, fece stampare a sue spese, a partire dal 1571, degli opuscoli che inviò ai matematici di tutti i paesi. Viète espone i primi principi del suo metodo nella sua Introduzione all’arte analitica (Isagoge in artem analyticam).

La sua opera essenziale è la creazione del meccanismo algebrico; completando così il metodo analitico di Platone, egli dà alla matematica il suo linguaggio, sia analitico che sintetico. Prima di lui, i matematici calcolavano solo sui numeri, e la sola incognita, con le sue potenze, era rappresentata da segni; non si facevano operazioni con le lettere e il prodotto di due quantità era rappresentato da un nuovo simbolo; in una parola, il calcolo algebrico non esisteva.

“È concepibile”, dice Michel Chasles nella sua Histoire des méthodes géométriques, “che questo stato limitato e imperfetto non abbia costituito la scienza algebrica dei nostri giorni, la cui potenza risiede in quelle combinazioni dei segni stessi che completano il ragionamento dell’intuizione e conducono per una via misteriosa ai risultati desiderati. ”

Rappresentando con lettere tutte le quantità, sia conosciute che sconosciute, e sottoponendole a tutte le operazioni che si facevano sui numeri, Viète costituisce nella sua forma moderna questa scienza dei simboli che è l’algebra, allo stesso tempo un linguaggio e un meccanismo, e ne fa un nuovo mezzo di espressione e un nuovo strumento di scoperta.

Così, trasformando un ragionamento particolare in una formula generale, in una legge, contribuisce a sviluppare la potenza dei metodi matematici. Lui stesso ha studiato le equazioni algebriche di qualsiasi grado e ha immaginato la maggior parte delle semplificazioni che le equazioni algebriche subiscono per essere risolte più rapidamente. Probabilmente conosce la formula che sviluppa (a+b)n; trova le formule che esprimono sin mx e cos mx in termini di sin x e cos x e le applica allo studio di certe equazioni algebriche. Egli dà un’espressione di sotto forma di un prodotto infinito che, senza avere alcun valore per il calcolo pratico, è il primo esempio preciso di quell’uso degli sviluppi illimitati che, nel secolo seguente, segnerà un così grande progresso nell’analisi matematica. In geometria, ha risolto con singolare eleganza il problema di condurre un cerchio tangente a tre cerchi dati.

Simon Stevin. Adrianus Romanus.
Tra i matematici della fine del XVI secolo, un posto speciale deve essere riservato a Simon Stevin (nato a Bruges nel 1548, morto all’Aia (?) nel 1620). Nello studio dell’equilibrio dei solidi, non c’erano stati progressi dopo Archimede: Stevin trovò, per il piano inclinato, il rapporto tra la forza motrice e il peso del corpo; seppe rappresentare le forze per segmenti di linea (vettori) e diede, prima di Varignon, la regola di composizione delle forze che è alla base della meccanica. Continuando in idrostatica le scoperte dell’illustre siracusano, dimostrò che un liquido può esercitare sul fondo di un vaso una pressione maggiore del suo stesso peso; questo è il paradosso idrostatico la cui scoperta è stata spesso attribuita a Pascal. Così, nel fecondo cammino dell’applicazione della matematica alla meccanica, Stevin ha preceduto Galileo. Se dobbiamo credere a Cournot, dobbiamo anche a Stevin l’uso del calcolo delle frazioni decimali, che è come il complemento naturale del nostro sistema di numerazione. (Altri attribuiscono questo sistema a Regiomontanus, che visse nel XV secolo; Libri rivendicò questa invenzione per i veneziani nel XIV secolo; Biot, da parte sua, considerò Neper come l’autore dell’attuale notazione di queste frazioni).

Aggiungiamo, per finire con la matematica del Rinascimento, che grazie allo straordinario progresso dei metodi di calcolo algebrico, Van Roomen, meglio conosciuto con il nome di Adrianus Romanus (nato a Lovanio nel 1561, morto a Magonza nel 1615), calcolò il numero (Pi greco) del rapporto tra la circonferenza e il suo diametro, con quindici cifre decimali, 3.141. 592. 653. 589. 793.

La creazione di strumenti potenti (XVII secolo).
L’aritmetica, l’algebra e anche la vecchia geometria ereditata dai greci, faranno ancora nuovi progressi, ma le creazioni capitali del XVII secolo in matematica sono la geometria analitica, dovuta a Cartesio e che permette di trattare le proprietà geometriche di una figura con l’aiuto delle procedure ordinarie dell’algebra, e soprattutto il calcolo infinitesimale, preparato da Cavalleri (trasformando il metodo di esaurimento di Archimede, finì con la sua geometria degli indivisibili), e Fermat e Barrow (metodo delle tangenti) e fondato da Newton e Leibniz, e che doveva aumentare prodigiosamente il potere della matematica di aprire nuovi campi, non solo nella matematica pura, ma anche nella meccanica e nella fisica.

Logaritmi.
Anche se l’aritmetica indiana e la notazione delle frazioni decimali riducono i calcoli numerici al massimo grado di semplicità, questi calcoli sarebbero ancora spesso molto difficili e persino impraticabili a causa della loro lunghezza, se Neper non avesse dato ai calcolatori un nuovo strumento, inventando i logaritmi, per mezzo dei quali tutte le operazioni possono essere ridotte, per così dire, di un grado.

John Napier (Neper) descrive la sua scoperta nel suo Logarithmorum canonis descriptio (Edimburgo, 1614), ma non spiega i mezzi con cui è stata raggiunta. Si appella semplicemente a considerazioni meccaniche, e anche i logaritmi ora chiamati neperiani sembrano essere stati ideati da Speidel. Dopo la morte di Neper, suo figlio pubblicò il suo Mirifici logarithmorum canonis constructio (Lione, 1620), che rivela le procedure utilizzate da suo padre. Poi Henry Briggs, professore al Gresham’s College di Oxford, ebbe l’idea di prendere 10 come base del sistema dei logaritmi, e calcolò la prima tabella dei logaritmi dei numeri da 1 a 1000 con 14 decimali (1618). Nella sua Arithmetica logaritmica (1624), completò questo tentativo dando i logaritmi da 1 a 20.000 e da 90.000 a 100.000. Nel 1628, Vlacq colmò la lacuna da 20.000 a 90.000 stabilendo delle tavole con 10 decimali che contenevano, oltre ai logaritmi dei numeri da 1 a 100.000, i logaritmi dei seni, delle tangenti e delle secanti, calcolati di minuto in minuto per tutti i gradi del quarto di cerchio (1633). Questo libro fu la fonte da cui i suoi successori avrebbero attinto nei secoli successivi: Callet (1783), Lalande (1802), Prony e Schroen, per citare solo i più famosi.

Fino all’avvento delle calcolatrici elettroniche nella seconda metà del XX secolo, i logaritmi rimasero il modo migliore per avvicinarsi ai calcoli numerici complicati.

Teoria dei numeri. Fermat.
La teoria dei numeri rinacque nel XVII secolo con Bachet de Méziriac (1587-1638), che diede (1621) la prima buona traduzione di Diofanto, e nel 1624 una raccolta di piacevoli e deliziosi Problemi che si fanno con i numeri. Il grande creatore qui è Pierre Fermat (1601-1665), consigliere al Parlamento di Tolosa, l’uguale in tutte le parti della scienza dei migliori matematici del suo tempo. La sua opera aritmetica ci è nota attraverso la pubblicazione, nel 1670, da parte di suo figlio Samuel Fermat, di un’edizione del Diofanto accompagnata dalle note che Pierre Fermat aveva scritto a margine della sua copia; vi troviamo le soluzioni di quei problemi sui numeri, con cui Fermat disperava i suoi corrispondenti, e anche teoremi come, almeno per uno, la dimostrazione completa dovette aspettare fino al 1994. Fermat può aver posseduto, per lo studio dei numeri, un metodo semplice che ci è sconosciuto; in aritmetica, è rimasto senza pari.

Pierre Fermat.
Fermat.

Nuovi simboli algebrici.
Dopo Viète venne Albert Gérard (1629), che per primo mostrò l’uso del segno negativo nella soluzione delle equazioni; poi Harriot, al quale dobbiamo una scoperta della massima importanza, cioè che tutte le equazioni algebriche possono essere considerate come il prodotto di tante equazioni semplici quante sono le unità nel numero che esprime il suo grado. Si può, per esempio, considerare un’equazione di 5° grado come il prodotto di 5 equazioni semplici. I segni < e > (“meno di” e “maggiore di”) sono di sua invenzione. Oughtred, allo stesso tempo, introdusse il segno x per designare la moltiplicazione.

Cartesio e la geometria analitica.
Dopo la caduta dell’Impero Romano, la geometria aveva subito il destino delle altre scienze ed era caduta nell’oblio. Al tempo del Rinascimento, gli studiosi, per un intero secolo, si erano dati così esclusivamente alla cura di tradurre e commentare le opere dei geometri antichi, che è quasi impossibile citare un vero progresso in geometria. Per questo dobbiamo aspettare Cartesio (1596-1650), la mente universale che ha lasciato il segno in tutta la filosofia e la scienza del suo tempo. Il suo lavoro scientifico è principalmente matematico. Il Discorso sul metodo per condurre la ragione e cercare la verità nelle scienze, pubblicato nel 1637, fu seguito da tre supplementi: Diottrica, Meteore e Geometria, in cui Cartesio esponeva alcune applicazioni specifiche della sua dottrina generale.

L’idea fondamentale della geometria cartesiana o geometria analitica – la determinazione di un punto nel piano mediante le sue distanze dai due lati di un angolo retto – non è certamente nuova, poiché la posizione di un punto sulla sfera terrestre è stata a lungo determinata dalle sue due coordinate geografiche, longitudine e latitudine. Ma Cartesio, stabilendo una corrispondenza tra le equazioni dell’algebra (di cui rinnova il simbolismo) e le figure della geometria, mostra la sorprendente fecondità dell’approccio. Ricavò un metodo generale per trattare tutte le questioni di geometria attraverso l’algebra e, allo stesso tempo, la migliore classificazione delle curve; inoltre, la nozione di coordinata, che realizza questa corrispondenza, va oltre il campo della geometria per estendersi alla meccanica e alle scienze fisiche: tutta la teoria fisica è una rappresentazione, una spiegazione algebrica dei fenomeni. Così Cartesio, trasportando la matematica in regioni completamente nuove, fu il primo a considerare tutti i fenomeni come semplici conseguenze delle leggi della meccanica. A parte la matematica, Cartesio crea, attraverso il suo pensiero, il mondo esterno, e la sua fisica è una specie di geometria dove l’esperienza non ha posto.

Cartesio indica anche il modo di costruire o rappresentare geometricamente le equazioni dei gradi superiori. Egli dà una regola per risolvere un’equazione di quarto grado per mezzo di un’equazione cubica e due equazioni di secondo grado. Infine, perfezionò i metodi usati da Cardan, Gerard, Harriot e altri matematici per ridurre e trattare le equazioni. In particolare, ha introdotto la notazione degli esponenti e i principi del loro calcolo.

Mentre Cartesio scopriva la geometria analitica, anche i metodi che la geometria tradizionale aveva ereditato dai greci furono completamente rinnovati, ancora da Cartesio e da Pascal, con le loro considerazioni sulle proprietà delle proiezioni e delle trasversali, e soprattutto da Girard Desargues (1593-1662), che pose le basi della geometria descrittiva, che dovette tutto il suo sviluppo a Monge alla fine del secolo successivo. Desargues, che come Monge, al quale può essere paragonato, applicava già le sue scoperte ad applicazioni pratiche, in particolare la prospettiva e il taglio della pietra.

Il calcolo differenziale e integrale.
Ancora più fertile della geometria analitica, il calcolo infinitesimale (calcolo differenziale e integrale) emerse allo stesso tempo da due problemi che inizialmente erano trattati separatamente l’uno dall’altro: il calcolo delle quadrature e la ricerca delle tangenti.

Il problema delle quadrature, cioè il calcolo delle superfici racchiuse da una curva, e quello dei volumi erano stati trattati, in casi semplici, da Archimede. Il geometra siracusano scomponeva la superficie o il volume da calcolare in sottili fette parallele (fette infinitesimamente piccole), assimilate a rettangoli o cilindri e di cui calcolava la somma. Tutti i matematici, a partire da Galileo e Keplero (l’introduttore della nozione di infinito matematico), hanno utilizzato i metodi di somma degli infinitesimi. Nella sua Geometria degli indivisibili (1635), Cavalieri (1598-1647) si limitò ad esporli in forma sistematica e li applicò solo agli esempi più semplici. I risultati ottenuti da Roberval (1602-1675), che sembra aver trovato il suo metodo di somma indipendentemente da Cavalieri, da Fermat, Torricelli, Cartesio, Wallis, e soprattutto da Pascal, che, con prodigi d’ingegno, portò il problema delle quadrature fin dove era possibile prima dell’invenzione del calcolo integrale, dovevano essere altrettanto importanti. Leibniz dirà delle Lettere di Dettonville (1659), dove Pascal pubblicò i risultati ottenuti sulla roulette, che furono l’origine delle idee che lo portarono alla scoperta del calcolo infinitesimale.

Il problema delle tangenti, che i geometri si ponevano allo stesso tempo, senza vedere prima il legame con il problema delle quadrature, era molto più difficile da risolvere. Nella sua Geometria, Cartesio dà un metodo di indagine generale relativamente complicato; Fermat, riportando il problema delle tangenti al problema dei massimi e dei minimi, escogitò una soluzione molto migliore, che d’Alembert disse essere la prima applicazione del calcolo differenziale: Roberval e Torricelli trovarono anche la costruzione delle tangenti considerando il movimento delle figure.

Dal problema delle quadrature, che era una somma di infinitesimi, e dalla ricerca delle tangenti, che Fermat aveva ridotto al calcolo di rapporti di infinitesimi, lo spirito filosofico di Leibniz farà emergere la potente sintesi che è il calcolo infinitesimale. Leibniz si era occupato poco di matematica fino al suo soggiorno a Parigi (1672-1676), quando conobbe Huygens e il lavoro dei matematici francesi, compresi Pascal e Fermat. Da molto tempo cercava di rappresentare le operazioni della mente con simboli astratti e di creare così una specie di scrittura universale; è mentre cerca di ridurre all’essenziale le idee e i calcoli che hanno dato le quadrature e le tangenti che si accorge che i due problemi sono l’inverso l’uno dell’altro, cosa che era sfuggita ai suoi predecessori; Sostituì poi i ragionamenti e i dispositivi più o meno complicati con un calcolo soggetto a regole precise e creò le nuove nozioni di infinitesimi, derivate e integrali con i metodi e le notazioni che si usano ancora. L’invenzione di Leibniz, fatta a Parigi nel 1675, non fu pubblicata fino al 1684 negli Acta Eruditorum di Lipsia.

Newton.
Leibniz.
Newton.

Leibniz.

Da parte sua, Newton, che si occupava principalmente di meccanica, arrivò al nuovo calcolo considerando le quantità matematiche come generate dal movimento. Così appaiono le nozioni di variabili (fluenti) e di velocità di variazione (flussioni); così nascono i due problemi meccanici corrispondenti ai problemi geometrici delle tangenti e delle quadrature:

1° conoscendo ad ogni istante lo spazio percorso da un mobile, trovare la sua velocità;

2° conoscendo ad ogni istante la velocità di un corpo in movimento, trovare lo spazio che ha percorso.

La reciprocità è ovvia, e il metodo di Newton, evitando apparentemente la considerazione dell’infinitamente piccolo, sembra più intuitivo. Newton lo scoprì senza dubbio già nel 1671, quindi qualche anno prima di Leibniz, ma non lo pubblicò fino al 1704, alla fine del suo trattato di ottica. Questa circostanza diede origine a una discussione che continuò a lungo con grande amarezza, da un lato tra i matematici inglesi che rivendicavano i diritti di Newton sull’onore della scoperta, e dall’altro i matematici di Francia e Germania, che ne attribuivano il merito a Leibniz (è stato a lungo concordato che questi due matematici sono inventori indipendenti).

Il calcolo infinitesimale ha aumentato prodigiosamente il campo e la potenza della matematica introducendovi la nozione di variazione già contenuta nella geometria di Cartesio; permette la sua applicazione allo studio dei fenomeni naturali, dove il moto occupa il primo posto; nuovi problemi sono ormai posti e risolti, non solo nella matematica pura, ma anche nella meccanica, nell’astronomia e nella fisica; il calcolo infinitesimale favorirà il prodigioso sviluppo della fisica matematica.

I primi successori di Newton e Leibniz

I primi matematici che, dopo Leibniz e Newton, hanno continuato la scoperta matematica sono discepoli di Leibniz e appartengono alla scuola di Basilea. Essi sono: Jacques Bernoulli (1654-1705) e suo fratello Jean Bernoulli (1667-1748), che insegnarono successivamente a Basilea, e fecero conoscere il “nuovo calcolo” con le loro lezioni e opere; il marchese de L’Hospital, allievo di Jean Bernoulli, che pubblicò in Francia la sua Analisi dell’infinitamente piccolo (1696). Poi venne Daniel Bernoulli (1700-1782), figlio di Jean; poi Leonard Euler (1707-1783), nato a Basilea, allievo di Jean Bernoulli, che fu senza dubbio il più grande matematico della metà del XVIII secolo.

In Inghilterra, Newton, che fu lento a pubblicare le sue scoperte, ebbe pochi successori immediati. Citiamo comunque: Taylor (1685-1731), Stirling (1696-1770) e Maclaurin (1698-1746). È soprattutto in Francia che l’autore dei Principi matematici della filosofia naturale avrà i suoi veri successori in Clairaut (1713-1765), d’Alembert (1717-1783) e soprattutto Laplace (1749-1827). Lagrange (1736-1813) fu un altro di questi maestri.

Sviluppi dell’analisi (XVIII secolo).
Nel XVIII secolo, Moivre, Stirling, Cotes, Lambert, Maclaurin, Maupertuis, d’Alembert, Euler, Lagrange e una miriade di altri matematici svilupparono e perfezionarono successivamente l’algebra e soprattutto l’analisi in tutti i loro rami. La creazione del calcolo infinitesimale, la definizione dei principi (newtoniani) della meccanica e la scoperta della legge dell’attrazione universale segnano l’inizio di una nuova era nello sviluppo della matematica e delle scienze fisiche, che sono inseparabili. Il grande pensiero di Cartesio, l’applicazione della matematica allo studio dei fenomeni naturali, trovò nel calcolo infinitesimale il suo strumento di esecuzione, nei movimenti degli astri il suo primo campo di ricerca; la meccanica celeste fu il filo conduttore dello sviluppo matematico dell’epoca.

La storia dell’analisi matematica del XVIII secolo è quindi principalmente quella dei problemi di meccanica generale e di meccanica celeste. Lagrange creò la teoria delle funzioni analitiche; Laplace applicò una dotta analisi alla meccanica celeste. La relazione tra scienza pura e applicata portò al progresso reciproco delle due parti; l’equazione dei problemi meccanici portò alle equazioni differenziali, la cui integrazione era ancora un campo poco esplorato.

La meccanica generale.
Il primo progresso, prefazione necessaria a tutti gli altri, è la costituzione definitiva della meccanica razionale. Il libro dei Principi, di Newton, conteneva lo studio del moto di un punto; resta da stabilire la meccanica degli insiemi: corpi solidi, liquidi e gas. Huygens aveva fatto il primo passo studiando il pendolo composto. Varignon, nella sua Nouvelle mécanique (1725), riduce ora l’equilibrio dei corpi solidi alla regola del parallelogramma delle forze e pubblica la lettera di Jean Bernouilli (1717) che contiene la dichiarazione definitiva del principio dello spostamento virtuale.

Con d’Alembert, la meccanica fu liberata dalle considerazioni metafisiche che ne avevano ostacolato lo sviluppo: partendo dal principio che porta il suo nome, d’Alembert, nel suo Traité de dynamique (1743), prima sintesi dei risultati acquisiti, espose un metodo generale per equiparare tutti i problemi del moto, ottenne le equazioni dell’idrodinamica e del moto dei gas, e diede una prima forma delle equazioni del moto di un corpo solido, alle quali Euler diede la forma definitiva.

Dopo Maupertuis, che formulò il principio della minima azione, Lagrange riunì sotto un unico punto di vista le scoperte dei suoi predecessori. La sua Meccanica Analitica (1788), un capolavoro di chiarezza, eleganza e metodo, completò la meccanica razionale newtoniana.

Meccanica celeste.
Allo stesso tempo, lo studio dei problemi posti dall’astronomia continuò. Newton aveva già spiegato non solo i moti ellittici kepleriani, ma anche la maggior parte dei fenomeni osservati: il moto della Luna, le perturbazioni planetarie, le maree, la forma della Terra, la precessione degli equinozi; ma aveva solo potuto abbozzare queste varie teorie nello stato delle conoscenze matematiche del suo tempo. Tutti i grandi problemi della meccanica celeste furono ripresi dai seguaci di Newton; scegliendoli come soggetti per i suoi premi, l’Accademia di Parigi provocò la ricerca dei matematici più brillanti. Daniel Bernoulli, Euler, Maclaurin, Clairaut, d’Alembert, Lagrange (Mécanique analytique, 1788), arrivarono solo a soluzioni approssimative: Laplace ha dato soluzioni complete, basate sia sul calcolo che sull’osservazione. Il suo grande Trattato di meccanica celeste (1799-1825) e la sua Exposition du système du monde (1796), una prima divulgazione di questa grande opera, forniscono un quadro completo dei risultati ottenuti in astronomia all’epoca. Il lavoro inaugurato dai Principi di Newton porta a quella che allora, e fino ai primi anni del XX secolo (Einstein), sembra essere la sua conclusione definitiva: i moti e le forme delle stelle sono effettivamente la conseguenza della legge unica dell’attrazione universale.

La soluzione delle equazioni.
L’algebra delle equazioni è stata costruita gradualmente durante il XVIII secolo. Dopo Rolle, che aveva dato nel 1690 il semplice metodo di separazione delle radici costantemente utilizzato da allora, l’abbé de Gua dimostrò (1741) la regola dei segni di Cartesio. Il teorema fondamentale sull’esistenza delle radici, enunciato da d’Alembert, fu dimostrato rigorosamente per la prima volta da Gauss (1799). La risoluzione delle equazioni fu oggetto del lavoro di Bezout (Théorie générale des équations algébriques, 1779), e soprattutto di Lagrange (Traité de la résolution des équations numériques, 1798), che vide nello studio delle funzioni radice la vera base della risoluzione algebrica, preludendo così al lavoro, nel secolo successivo, di Abel e Galois.
Il XIX secolo
Il XIX secolo aprirà ancora nuovi sbocchi all’ardore intellettuale dei matematici; sarà la teoria dei numeri, trascurata tra Fermat ed Eulero; sarà la teoria delle funzioni in generale, in particolare lo studio delle funzioni ellittiche (Abel, Weierstrass, Jacobi, Charles Hermite, Bertrand, Picard e Poincaré); sarà anche la geometria moderna, costituita da Chasles, senza dimenticare le ricerche di Legendre, Gauss, Poisson, Sturm, Cauchy, per parlare solo dei campi in cui i matematici potranno lavorare, per parlare solo dei campi in cui il progresso sarà più decisivo.

Lo studio approfondito della natura fu la fonte più fertile di scoperte matematiche fino a Laplace e Fourier; ma, con Gauss e Cauchy, la matematica si orientò verso l’analisi pura: per dare allo strumento matematico tutta la sua potenza, si è portati a generalizzare i problemi particolari posti dai fenomeni naturali, e si ritorna ai principi per ricostruire l’edificio su piani nuovi e allargati: da qui nascono le teorie generali delle equazioni algebriche, delle funzioni di variabili immaginarie, delle equazioni differenziali. In questo lavoro, in cui Gauss fu un precursore, il ruolo principale appartiene a Cauchy, a cui dobbiamo le definizioni precise e i metodi rigorosi dell’analisi moderna.
La meccanica razionale sembra avere solo da perfezionare i suoi metodi di esposizione, ma le sue applicazioni pratiche presentano un’importanza straordinaria, a causa dello sviluppo dell’industria e degli usi del vapore e dell’elettricità; tutti i rami della fisica sono successivamente sottoposti al calcolo e diventano subordinati alla matematica, mentre l’astronomia acquisisce una precisione sempre maggiore e affronta problemi finora considerati insolubili.

Allo stesso tempo, una forma di divisione del lavoro cominciò ad emergere per tutto il secolo, delineando chiaramente due domini distinti: quello dell’ingegnere, con la matematica applicata che guadagnava una forma di autonomia, e quello del matematico puro, che era sempre più preoccupato della fragilità delle basi teoriche su cui aveva progredito fino ad allora.

Analisi.
In analisi, le ricerche di Legendre sugli integrali ellittici formano un nuovo e bellissimo capitolo del vecchio calcolo integrale, senza alcuna modifica profonda del metodo. Le nuove idee che trasformeranno questa parte della scienza matematica appartengono ad Abel e Jacobi.

Teoria delle funzioni di variabili immaginarie.
La teoria delle funzioni sarà la conquista più importante dell’analisi durante il XIX secolo. Il Traité des fonctions elliptiques (1826) di Legendre era ancora ispirato ai metodi del vecchio calcolo integrale, quando due giovani matematici, Abel (1802-1829) e Jacobi (1804-1851), scoprirono la proprietà fondamentale della doppia periodicità e diedero all’intera teoria un nuovo e infinitamente più fertile orientamento. Poiché la doppia periodicità può apparire solo nel dominio della variabile immaginaria o complessa, è necessario estendere il campo della variabile a valori complessi. Questo fu il lavoro essenziale di Cauchy (1789-1857). La sua teoria delle funzioni di una variabile complessa ha talmente dominato la matematica dell’epoca che tutti i grandi analisti del XIX secolo sono stati semplicemente i suoi successori.

Dopo Cauchy, due matematici tedeschi, Riemann (1826-1866) e Weierstrass (1815-1897), completarono la fondazione della teoria generale delle funzioni: Riemann, con i metodi intuitivi della geometria, ne diede una luminosa interpretazione (1857). Wierstrass, con i suoi metodi di logica pura, ridusse tutto alla considerazione delle serie (intorno al 1870) e fece dell’analisi un’estensione dell’aritmetica.

L’integrazione delle equazioni differenziali.
Il problema principale della matematica, quello che le applicazioni alle scienze fisiche hanno imposto dalla creazione del calcolo infinitesimale, è l’integrazione delle equazioni differenziali. Fino al XVIII secolo, si cercava di esprimere la funzione sconosciuta per mezzo di funzioni già note o per mezzo di quadrature; ma sono rari i casi in cui il problema dell’integrazione può essere risolto così, e lo studio delle funzioni ellittiche sarà la prima occasione per dargli il suo aspetto moderno, cioè la ricerca delle proprietà della nuova funzione. Laplace, che aveva continuato le sue ricerche, perfezionò i procedimenti di integrazione delle equazioni; ma anche in questo caso fu Cauchy a giocare il ruolo più importante, dimostrando l’esistenza di soluzioni e dando metodi di calcolo approssimativo. Lo studio dell’equazione ipergeometrica di Gauss, Kummer, Riemann e Goursat, il lavoro di Fuchs sulle equazioni differenziali lineari, gli studi di Painlevé sulle equazioni con punti critici fissi sono legati al dominio della variabile complessa.

Sviluppi nelle serie di Fourier.
Nel campo della fisica matematica, Fourier (1768-1830), quando inventò lo sviluppo in serie trigonometriche, fornì agli analisti logici uno strumento capitale, che permise loro di dare sviluppi straordinari alla nozione di funzione: la serie di Fourier gioca un ruolo diverso in matematica, ma altrettanto importante della serie di Taylor. Il lavoro di Fourier (Teoria Analitica del Calore) contiene i semi dei metodi utilizzati per molte altre equazioni della fisica matematica, che hanno fornito a Poisson, Cauchy, Green, Lamé, Neumann, Picard, Poincaré, Hadamard, l’opportunità di ricerche di altissimo interesse. Infine Fredholm e Volterra, con la creazione delle equazioni integrali, creano un nuovo metodo per risolvere più semplicemente e più completamente i vecchi problemi.

Meccanica razionale. Meccanica celeste.
Con Lagrange, la meccanica razionale prende la sua forma definitiva, e Poisson, Hamilton (principio dei quaternioni, calcolo applicato alle figure geometriche dello spazio), Jacobi, non fanno che dare alle sue equazioni nuove forme analitiche; è tuttavia necessario segnalare gli eleganti metodi geometrici applicati da Poinsot (1777-1859) alla meccanica.

L’unico fatto significativo da registrare nella meccanica celeste è la scoperta del pianeta Nettuno, per mezzo del solo calcolo, da parte di Le Verrier (1811-1877). Per spiegare le discrepanze tra il moto osservato di Urano e quello calcolato, Le Verrier le attribuì all’azione di un pianeta sconosciuto, di cui calcolò la posizione; l’astronomo Galle, di Berlino, vide il pianeta Nettuno (1846) nel luogo indicato da Le Verrier; questo fu visto come una conferma eclatante della legge newtoniana dell’attrazione.

Nel 1880, Henri Poincaré (1854-1912) iniziò lo studio geometrico delle curve definite da equazioni differenziali, che è il principio dei suoi Nuovi metodi di meccanica celeste. Anche se i risultati ottenuti sono molto importanti, il blocco delle equazioni differenziali rimarrà per diversi decenni una fortezza quasi intatta.

Algebra e campi correlati.
Nascita della teoria dei gruppi.
La risoluzione algebrica delle equazioni, che era stata il tormento dei matematici del XVIII secolo, trovò finalmente la sua base definitiva grazie al genio prodigioso di Évariste Galois (1811-1832).

Dopo Abel, che aveva dimostrato l’impossibilità di risolvere l’equazione generale di quinto grado mediante i radicali, Galois, seguendo le orme di Lagrange, Gauss e Vandermonde, rinnovò il problema della risoluzione delle equazioni algebriche mostrando che ogni equazione corrisponde a un gruppo di sostituzioni in cui si riflettono le sue caratteristiche essenziali. Non c’è forse una scoperta più fruttuosa nel XIX secolo di quella di questo giovane che, gettandosi nella mischia politica nel luglio 1830, morirà in duello all’età di ventuno anni. Alla vigilia della sua morte, scrisse al suo amico Auguste Chevallier una sorta di testamento scientifico che termina con questo struggente rimpianto: “Non ho tempo! “In esso indicò alcune proprietà degli integrali di funzioni algebriche, che Riemann avrebbe trovato solo venticinque anni dopo.

Le nozioni introdotte da Galois, estese da Jordan (Sostituzioni di equazioni algebriche, 1870), vanno oltre il campo dell’algebra, e il concetto di gruppo di operazioni ha preso un posto importante e sempre crescente nella matematica. Sophus Lie (1838-1899), studiando i gruppi continui che contengono un numero infinito di trasformazioni, creò uno strumento il cui uso si rivelò fruttuoso in geometria, nella teoria delle funzioni, nelle equazioni differenziali e, come vedremo nel secolo successivo, anche in fisica, dove fu usato nella teoria della relatività così come nella fisica delle particelle.

Teoria dei numeri.
La teoria dei numeri, trascurata dopo Fermat e ripresa da Eulero e Lagrange, deve importanti risultati a Legendre e soprattutto a Gauss (1777-1855).

Nella sua Théorie des nombres (1830), Legendre (1752-1833) presentò non solo i risultati del proprio lavoro, ma anche tutti i risultati ottenuti fino a quel momento nell’aritmetica superiore.

Nel campo in cui l’algebra incontra la teoria dei numeri, Hermite ottenne (1873) il risultato a lungo ricercato che il numero e, la base dei logaritmi naturali, non è la radice di nessuna equazione algebrica con coefficienti interi. Seguendo la stessa procedura, Lindemann dimostrò la trascendenza di (1882), stabilendo così rigorosamente l’impossibilità di squadrare il cerchio.

Il calcolo delle probabilità.
Dobbiamo a Laplace la costituzione definitiva di un ramo della scienza matematica la cui importanza crescerà. Il calcolo delle probabilità, nato nel XVII secolo con Pascal, Fermat e Huygens, aveva, nel secolo successivo, attirato l’attenzione di Jacques Bernouilli, Montmort, Moivre e Buffon, e il saggio di Deparcieux sulle probabilità della durata della vita umana (1746) aveva posto le basi della teoria dell’assicurazione sulla vita. Nel XIX secolo Laplace, riconoscendo l’importanza generale di questa scienza e delle sue applicazioni, ne diede una magistrale esposizione nel suo Essai philosophique sur les probabilités, un’introduzione alla seconda edizione (1815) della Théorie analytique des probabilités.

Geometria.
Nel percorso aperto da Cartesio, la geometria continuò a progredire e, dopo i metodi dell’algebra, impiegò le risorse del calcolo infinitesimale. Monge fu qui il grande creatore e precursore dei matematici del XIX secolo che coltivarono la geometria delle superfici; a lui dobbiamo in particolare l’introduzione del principio di continuità, e anche la forma attuale della geometria descrittiva (1799), che costruì riducendo all’essenziale le ricette empiriche applicate da carpentieri e scalpellini. Infine, Lazare Carnot (1753-1823) ha un posto più importante nella storia della scienza che in quella degli eventi politici; la sua Géométrie de position (1803) e il suo Essai sur les transversales (1806) saranno il punto di partenza delle ricerche sulla geometria pura per tutto il XIX secolo.

Possiamo anche menzionare i lavori di Hachette, Brianchon, Gergonne, Dandelin, Quetelet; quelli di Gaultier, Steiner e Gudermann sulla geometria della sfera, già coltivati da Lexell, Fuss, Lhuillier e Magnus; la Théorie de la rotation des corps di Poinsot; gli studi di Cauchy e Bertrand sui poliedri; le ricerche di Ossian Bonnet sulla geometria infinitesimale. Infine, menzioniamo Mannheim che, attraverso la sua geometria cinematica (1894), derivò dalla meccanica razionale nuovi metodi per la determinazione delle proprietà proiettive.

Geometria proiettiva. Topologia.
Da Cartesio in poi, il calcolo aveva dominato la geometria; nel XIX secolo, si verificò una rivoluzione inversa. Dopo le opere di transizione di Carnot e Charles Dupin (Les Développements de géométrie), l’iniziatore di questo ritorno alla geometria pura fu Poncelet (1788-1867), il cui Traité des propriétés projectives des figures (1822) definì le caratteristiche della geometria proiettiva, che studia le proprietà delle figure che rimangono inalterate da una proiezione conica: la nuova idea fondamentale consiste nel considerare le figure geometriche nelle loro relazioni con certe trasformazioni dello spazio. Dopo Poncelet, scoraggiato dall’indifferenza di Cauchy, la nuova geometria fu sviluppata sistematicamente da Michel Chasles (introduttore dei principi di dualità e omografia), Moebius, Steiner, von Staudt, Plücker, L. Hesse, Sylvester e Cayley (determinanti, matrici), Laguerre e Félix Klein, le cui dottrine prolungarono la geometria greca. Klein, che mise anche la teoria dei gruppi e il concetto di simmetria al centro del programma che stabilì a Erlangen nel 1872, fu l’iniziatore di un approccio volto a collocare i vari rami della matematica in un unico quadro concettuale. Il programma di Erlangen sarà una delle principali linee di forza alla base dell’evoluzione della matematica nel XX secolo e i cui architetti furono, per esempio, Emmy Noether (1882 – 1935) o Alexander Grothendieck (nato nel 1928 a Berlino, morto nel 2014 a Saint-Lizier), il rifondatore della geometria algebrica.

Allo stesso tempo, l’applicazione dell’analisi infinitesimale alla geometria continuò sulla strada aperta da Eulero e Monge. Anche qui, Gauss ha portato (Disquisitiones generales circa superficies curvas, 1827) una concezione originale e fruttuosa caratterizzando la topografia su una superficie mediante una forma quadratica di differenziali (applicata allo spazio tridimensionale, questa concezione diventerà la base della relatività generale di Einstein). Non è possibile enumerare qui tutte le conquiste della geometria infinitesimale; il capo della scuola, Gaston Darboux (1842-1917), ha dato un quadro generale nelle sue Leçons sur la théorie générale des surfaces.

Geometrie non euclidee.
Da queste ricerche, che prolungano la geometria degli antichi greci, dobbiamo avvicinare quelle che hanno per oggetto le basi stesse di questa geometria. Euclide non era in grado di collegare logicamente il suo postulato agli assiomi più o meno intuitivi su cui si basava. Fu solo nel XIX secolo che, realizzando un’idea che probabilmente aveva avuto Gauss, Lobachevski nel 1829 e Bolyai nel 1832 (a cui bisogna aggiungere i nomi di Beltrami e Sophus Lie) costruirono ciascuno per conto proprio la prima geometria non euclidea. In scritti che aprirono una seconda direzione di ricerca, Riemann nel 1854 e Helmholtz nel 1867 dimostrarono che lo spostamento dei corpi solidi gioca un ruolo essenziale, e costruirono una terza geometria, altrettanto coerente delle prime due. Queste tre geometrie possono essere caratterizzate dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è minore, uguale o maggiore di due diritti, a seconda che si tratti della geometria di Lobachevsky, di quella di Euclide o di quella di Riemann.

I fondamenti della geometria.
Utilizzando la teoria dei gruppi di trasformazioni, che aveva creato, Sophus Lie intraprese in tutta la sua ampiezza la ricerca delle ipotesi fondamentali e poté dare una soluzione completa. La geometria è stata stabilita alla fine del XIX secolo su un sistema completo e non contraddittorio di assiomi indipendenti. Poincaré ha sottolineato l’importanza di tutte queste ricerche per l’analisi della nostra intuizione dello spazio.

Lungo la strada, nuove questioni teoriche, riguardanti essenzialmente la logica, i fondamenti della matematica e i problemi di calcolabilità, cominciarono ad emergere e a delineare quello che sarebbe stato il programma della matematica del XX secolo: Boole (le leggi del pensiero, 1854), Cantor (teoria degli insiemi, 1872), Peano (ricerca logistica, 1890), Hilbert (fondamenti della geometria, 1899), ecc.
La matematica nel 20° secolo
La natura della matematica (1900-1940).
La questione dei fondamenti della matematica, che era stata sollevata alla fine del secolo precedente, portò ora a un grande sforzo di formalizzazione. L’obiettivo era quello di riscrivere la totalità della conoscenza matematica sotto forma di un insieme rigoroso e coerente basato su un sistema di assiomi di base e sull’applicazione di un insieme di regole logiche semplici e ben definite. L’impresa culminò nel grande lavoro di sintesi realizzato, dal 1920 al 1930, dal gruppo di Nicolas Bourbaki (pseudonimo collettivo), formato intorno a Jean Dieudonné (1906-1992), André Weil (1906-1998), A. Grothendieck, ecc. e che portò a quella che fu chiamata “matematica moderna”.

Tra i primi ad affrontare di petto la questione della fondazione della matematica fu Gottlob Frege (1848-1925). All’inizio del XX secolo, la teoria degli insiemi di Georg Cantor era riconosciuta come il miglior punto di partenza (altri sarebbero venuti dopo, come la teoria delle categorie proposta negli anni 1942-1945 da Samuel Eilenberg e Saunders Mac Lane, che potrebbe svolgere un ruolo simile). È dunque sulla teoria degli insiemi che Frege si basa per formulare le regole fondamentali dell’aritmetica. Ma, non appena ha affermato questo, la promessa di un sistema matematico perfetto è crollata, perché la teoria degli insiemi conteneva dei difetti. Una di queste incongruenze, segnalata dal matematico e filosofo Bertrand Russell (1872-1970), e conosciuta come paradosso di Russell, appare quando ci chiediamo se l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso. A questa domanda non si può rispondere senza contraddizioni.